"L'UNIVERSO CI AIUTA SEMPRE A LOTTARE PER I NOSTRI SOGNI, PER QUANTO SCIOCCHI POSSANO SEMBRARE. PERCHE' SONO NOSTRI E SOLTANTO NOI SAPPIAMO QUANTO CI COSTA SOGNARLI"

lunedì 13 dicembre 2010

NOUVELLE VAGUE

Il termine Nouvelle Vague ("nuova onda") apparve per la prima volta sul settimanale francese L'Express il 3 novembre 1957, in un'inchiesta sui giovani francesi a firma di Françoise Giroud e verrà ripreso da Pierre Billard nel febbraio 1958 sulla rivista Cinéma 58. Con questa espressione si fa riferimento ai nuovi film distribuiti a partire dal 1958 e in particolare a quelli presentati al festival di Cannes l'anno successivo.

I film diventano un mezzo attraverso i quali rifondare una sorta di morale nazionale, i cui dialoghi e personaggi sono spesso frutto di idealizzazione.

La tendenza idealistica e moralizzante fa di questo cinema qualcosa di totalmente distaccato dalla realtà quotidiana delle strade francesi. Fuori dalle finestre cè una nuova generazione che vuole cambiare, vuole mostrarsi diversa ed essere diversa, una generazione che parla, ama, lavora, fa politica in modo diverso ed inconsueto.

Una nuova generazione che pretende un cinema in grado di rispecchiare fedelmente questo innovativo modo di vivere.

La Nouvelle Vague è il primo movimento cinematografico a testimoniare in tempo reale l’immediatezza del divenire, la realtà in cui esso stesso prende vita. I film che ne fanno parte sono girati con mezzi di fortuna, nelle strade, in appartamenti, ma proprio per la loro singolarità, hanno la sincerità di un diario intimo di una generazione nuova, disinvolta, inquieta. Una sincerità nata dal fatto che gli stessi registi che si sono riconosciuti in questo movimento, tutti poco più che ventenni, fanno anche loro parte di quella nuova generazione, di quel nuovo modo di pensare, di leggere, di vivere il cinema che viene appunto chiamato Nouvelle Vague.

« ... è questa la condizione della dialettica cinematografica: bisogna vivere piuttosto che durare… »

GODARD

FINO ALL'ULTIMO RESPIRO

All'interno di questa prima opera di Godard sono già presenti quelle "trasgressioni" ai modelli narrativi tradizionali che la nouvelle vague utilizza per distanziarsi dal cosiddetto "cinema de papà": montaggio sconnesso, attori che si rivolgono direttamente al pubblico, sguardi in macchina.



LA CINESE





PRENOM CARMEN


In “Prénom Carmen”(1983), che vince il Leone d'oro a Venezia, si vede come il testo sia solo un pretesto per un libero assemblaggio fatto di giochi di parole, citazioni disparate, brani di musica, ripresa di scenari naturali, come le onde del Lago Lemano in "Prénom Carmen" che diventano uno dei principali leit motiv visivi del regista.

Nelle opere di questo terzo periodo alla compostezza dell'immagine si affianca il motivo ricorrente della musica classica, soprattutto di Mozart e Beethoven che già erano presenti nei film del primo periodo.


DUE O TRE COSE CHE SO DI LEI

CHABROL

UCCIDERO' UN UOMO (1969)

LE CERBIATTE (1968)
STEPHANE, UNA MOGLIE INFEDELE (1969)




ROHEMER

LA NOBILDONNA E IL DUCA


Una delle caratteristiche peculiari del cinema di Rohmer è l'utilizzo limitato della colonna sonora, in vista di un realismo privo di caratteri extradiegetici, con il solo accompagnamento di rumori e suoni naturali o urbani (ripresi doverosamente in presa diretta). Fa eccezione il film Il raggio verde, con un motivo composto in parte dallo stesso regista e alcune scene di feste accompagnate da pezzi ballabili anni ottanta.

Rohmer è stato un precursore del concetto di ciclo filmico a tema (Sei racconti morali, Commedie e Proverbi, Racconti delle quattro stagioni), cui diede i contorni autoriali molti anni prima di Krzysztof Kieślowski (Decalogo, Tre colori). La serie di Commedie e proverbi prende spunto da detti di saggezza popolare, a volte opportunamente riscritti e ampliati dallo stessa regista, oppure da frasi di scrittori illustri, riportate all'inizio del film.




LA MIA NOTTE CON MAUD


Nei suoi film le donne non sono mai le voci narranti, prerogativa affidata a personaggi maschili, ma sono le protagoniste il fulcro e l'elemento scatenante l'azione (o meglio, l'incontro o la conversazione): sono più interessanti e complesse, più sottili e meglio controllate, a volte più furbe, manipolatrici, e dotate di spirito di iniziativa. Hanno precise idee sull'amore, sulla coppia, sul matrimonio, ma nell'enunciare la loro etica (e nella difficoltà pratica di rispettarla) spesso tradiscono una profonda immaturità e superficialità. I maschi spesso sono studenti vitelloni sofferenti di timidezza e scarsa autostima, oppure adulti che faticano a controllare le proprie tentazioni, o che non sanno gestire una situazione sentimentale. Viceversa, talvolta si rivelano playboy senza scrupoli.Una menzione particolare spetta al personaggio dell'intellettuale nei suoi film. Che esso sia nevrotico, mondano e snob oppure colto, timido e introverso, è sempre destinato a rincorrere una donna che ama sinceramente, ma dalla quale non è ricambiato. Il suo ruolo si risolve sempre nel "comprimario" che tenta con artifici spesso sleali di screditare altri corteggiatori o amanti della donna desiderata per convincerla che egli è la miglior scelta. Finisce per essere ridimensionato al rango di confidente, accontentandosi di essere «una persona piacevole, interessante ma non attraente». È il caso ad esempio dello scrittore di Le notti della luna piena, del bibliotecario di Racconto d'inverno e del professore di filosofia di La mia notte con Maud. In quest'ultima opera, in particolare, il professore marxista attua la strategia masochistica di presentare un amico alla propria amante per far sì che lei lo tradisca e per trovare così un motivo per detestarla. Lei infatti, pur stimandolo, non è affatto innamorata quanto lui, e si è abbandonata in passato ad un rapporto sessuale quasi per noia.


LA COLLEZIONISTA

Il ritmo è lento, asincopato, lasco ma non prolisso, naturale; le riprese lunghe non vengono frammentate nel montaggio, che dà ai film un senso realistico dei tempi. Il suo cinema è soprattutto parlato, ma non teatraleggiante; è privo di una vera azione ed è densissimo di dialoghi, ma non soffre della gravità dei temi e dell'austerità della situazione della produzione di Ingmar Bergman. Tutto punta ad essere leggero nel significato più alto della parola: grazia del tocco, malignità nel banale, tentazione e desiderio in un contesto di calma apatica e sorniona, sottigliezza nell'indagine dei rapporti tra i giovani, uno sguardo da etologo sorridente.


Gli scenari sono solitamente quelli dei quartieri parigini e delle città, ma anche la provincia francese delle viticulture, la costa normanna e le spiagge del sud. Rohmer, da veterano della Nouvelle Vague, ama girare le sue scene per strada, nelle spiagge, nei parchi, almeno quanto negli interni e nei mezzi pubblici, disponendo di una troupe eccezionalmente leggera, che gli permette di mantenere intatto un certo realismo. Nella sua filmografia vi è anche spazio per ambientazioni storiche: la rivoluzione francese, il tardo settecento neoclassico di Heinrich von Kleist, il poema cavalleresco altomedievale di Chrétien de Troyes, l'ambiente bucolico-mitologico.

Le riflessione colte, cerebrali, astratte nelle quali si rifugiano a conversare alcuni dei suoi personaggi più intellettuali, è sempre equilibrato dalla puntualità, precisione e concretezza contestuale con cui si descrive il loro particolare ambiente: i personaggi, dai più sempliciotti e cinici a quelli più complessi e colti, sono ripresi nella banalità dei propri ambienti di lavoro (poste, viticultura, salone da parrucchiera, biblioteca), nella casualità dei mezzi pubblici, nella tranquillità di una passeggiata (per strada, al parco, in spiaggia, al bar), nell'intimità di una serata a teatro o di un raccoglimento in chiesa. È la poesia della banalità. Forse Rohmer vuole suggerirci che l'amore per una persona (reale) o per un personaggio scintilla solo se esso viene identificato nella quotidianità delle sue azioni e nella fresca semplicità del suo mestiere di vivere. Per questo viene sempre puntualizzato in quale città francese o quartiere parigino essi si trovino, a volte innestando brevissimi documentari "cine-turistici" sulla cittadina in cui essi si muovono.

Il suo genere, se di genere e non di stile si può parlare, è quello della commedia da sorriso, una sorta di saggia ma ilare rappresentazione delle inquietudini insinuate nel quotidiano, condite di un umorismo sotto le righe dotato di grande grazia. Il suo è un sorriso paterno e interessato, mai paternalistico, mai polemico, mai irriverente.

TRUFFAUT




«mia madre (...) non sopportava i rumori e m'impediva di muovermi e parlare per ore e ore. Allora io leggevo: era la sola occupazione a cui potessi dedicarmi senza disturbarla. Durante l'occupazione tedesca ho letto moltissimo e poiché stavo spesso solo, mi misi a leggere i libri degli adulti (...). Arrivato a tredici o quattordici anni comprai, a cinquanta centesimi al pezzo, quattrocentocinquanta volumetti grigiastri, Les Classiques Fayard, e mi misi a leggerli in ordine alfabetico (...), senza saltare un titolo, un volume, una pagina».




JULES&JIM (1961)


FOLLIE IN CERCHIO








... E ANCORA... CERCHI CERCHI CERCHI








giovedì 25 novembre 2010

ALL'OVEST NIENTE DI NUOVO - 1930 - Lewis Milestone

Uno dei primi film ad avvalersi del sonoro l'opera di Milestone prende spunto dall'omonimo romanzo di Erich Maria Remarque per raccontare l'odissea di un gruppo di amici di nazionalità tedesca che decide di arruolarsi per la Grande Guerra del 15-18. La loro odissea è narrata con occhio disincantato e velatamente amaro, con un retrogusto spiccatamente antimilitarista e pacifista. Partiti intrisi di ideali altisonanti come coraggio, onore, senso della Patria, in realtà i giovani si renderanno presto conto che la Grande Carneficina che alla fine fagociterà anche loro, non ha nulla a che vedere con questi roboanti propositi. Un film emozionante per il taglio iper-realista delle inquadrature, per il nevrotico succedersi degli eventi, per l'inquietante sondaggio delle anime dei protagonisti. Un'opera unica, solenne, commovente.


AMANTI PERDUTI - 1945 - Marcel Carné

Il titolo originale del film è "Les Enfants du Paradis", con riferimento a tutti quei ragazzi che si recavano a teatro e assistevano agli spettacoli dal loggione. L'opera è firmata da Marcel Carné ed è un autentico capolavoro, una vera pietra miliare della settima arte. Ambientato nel 1840 a Parigi, narra le gesta del celeberrimo mimo Baptiste Debureau e della sua straordinaria arte. L'uomo si innamora perdutamente di Garance, dama affascinante ma volubile. Dopo una breve ma intensa storia i due si lasceranno per ritrovarsi a teatro. Un'opera dal duplice fascino: neorealista (celebri gli scorci di una Parigi mai così bella) e romantica, con l'incarnazione dei grandi amori cantati da Flaubert e Hugo. Imperdibile.


ADDIO MIA CONCUBINA - 1993 - Kaige Chen


Un'opera per certi versi sorprendente questa di Chen Kaige, che ha ammaliato la giuria di Cannes strappando il primo posto della kermesse, ex aequo con Lezioni di Piano, di Jane Campion. La storia è quella di due amici che fin da bambini intraprendono la dura carriera dell'attore teatrale nella Cina di inizio secolo. I due intrecceranno l'amicizia e il virtuosismo fino ad alimentare una vera passione. Le cose si complicheranno quando uno dei due si innamorerà di una bellissima prostituta (interpretata da una straordinaria Gong Li). Un'opera di una raffinatezza stilistica senza eguali: patinata, lussuosa nella fotografia e nei costumi, densa di omaggi al teatro cinese e al suo rigido formalismo. Un film splendido, da vedere assolutamente.

8 1/2 - 1963 Federico Fellini


Un film autoreferenziale e strettamente autobiografico quello che Federico Fellini gira a inizio anni sessanta. Guido Anselmi (Marcello Mastroianni) è un regista che cerca di rilassarsi dopo la sua ultima fatica cinematografica, ma viene puntualmente perseguitato da personaggi che cercano un lavoro nel cinema o da sogni e paranoie personali che si insinuano piano dal passato. Un film cristallino, puro e tagliente come un rubino appena intagliato da una mano esperta. Un Fellini che partorisce un tesoro immaginifico ad ogni inquadratura.

FUGA DA NEW YORK - 1997 John Carpenter



John Carpenter piazza la sua cinepresa in una New York futuristica trasformata in prigione a cielo aperto. In questa metropoli-ghetto si aggira la peggiore feccia del globo, tiranneggiata dal Duca, il leader di questo microcosmo criminale. Quando l'aereo presidenziale cadrà e il primo cittadino USA cadrà in mano al Duca sarà Iena Plissken a dover togliere le castagne dal fuoco per conto del governo. Un film oscuro e ben sceneggiato, con un ritmo narrativo incalzante e un protagonista mitologico.

IL GATTOPARDO - 1963 Luchino Visconti


martedì 23 novembre 2010

VIOLA DI MARE

Un'isola intorno alla Sicilia, seconda metà dell'800. Angela e Sara crescono insieme ma le loro infanzie sono difficili: la prima subisce i soprusi di un genitore violento; la seconda perde il padre in guerra, mentre la guerra la strapperà all'amica e alla sua terra. Al suo ritorno, Angela si innamora di Sara e inizia il suo ostinato corteggiamento, da cui nascerà una relazione che, con il suo sviluppo inusuale, intaccherà riti millenari.
Viola di mare è il secondo film di Donatella Maiorca. Per il ritorno al cinema dopo tanta tv sceglie una storia difficile per il periodo storico che sta vivendo il nostro Paese: tratto dal romanzo "Minchia di Re" di Giacomo Pilati, racconta di due donne che si amano e, in qualche modo, spezzano le ritualità di una terra sempre uguale a se stessa. Angela e Sara, piegando ai propri scopi quei modelli consolidati, realizzano il loro sogno d'amore: grazie al potere del padre violento e al senso di colpa di un prete, Angela diventa Angelo.
Qui la Maiorca intraprende un sentiero imprevisto. Assaggiando la libertà degli uomini Angela rischia di esserne travolta e, suo malgrado, di diventare come il genitore che odia. Inutile negare o trascurare l'impatto che un film come Viola di mare può avere: due donne che vivono in Sicilia (nella terra di Divorzio all'italiana, non dimentichiamolo) ma potrebbero essere in qualsiasi altra regione d'Italia; è il XIX secolo ma, anche grazie alla colonna sonora di Gianna Nannini, potrebbero essere i nostri tempi; insomma, un luogo e un tempo in cui il continuo conflitto tra tradizione e modernità è trasposto nelle scene di violenza, un modo di comunicare che sembra improntare una terra spigolosa e dura come le sue rocce.
Solide le interpretazioni: la Solarino algida e mascolina, la Ragonese sempre più brava e un Fantastichini sempre al livello dei suoi altissimi standard.

SARA

ANGELA

SALVATORE



lunedì 22 novembre 2010

IL CINEMA AFRICANO
















QUENTIN TARANTINO

PULP FICTION

<...Il mio cinema o si ama o si odia>

(Quentin Tarantino al momento dell'assegnazione della Plama D'Oro per Pulp Fiction)

LE IENE


La vendita delle sue prime opere lo mette sotto la luce dei riflettori. Ad un party a Hollywood incontra il produttore Lawrence Bender, che incoraggia Tarantino a continuare a scrivere sceneggiature. Il risultato di quell'incontro è Le iene (Reservoir Dogs). La sceneggiatura scritta da Tarantino ed Avary viene letta dal regista Monte Hellman, che lo aiuta a trovare finanziamenti dalla Live Entertainment e ad assicurarsi la regia del film. La pellicola viene girata in sole 5 settimane nell'estate del 1991, dopo che Tarantino è stato ammesso al workshop del Sundance Film Institute di Robert Redford, e poi viene presentata al Sundance Film Festival, a quello di Montreal e a quello di Toronto, riscuotendo ovunque un grande successo di pubblico e critica. Ne viene fuori un film originale, cinico e sanguinoso, dal quale traspare in modo evidente la cinefilia del regista (elemento che sarebbe poi diventato un suo marchio di fabbrica). Il lungo dialogo con cui si apre il film è già estremamente tarantiniano.[3] Nel film sono già presenti alcune peculiarità del cinema di Tarantino: l'uso disinvolto della tecnica del flashback, l'ambiguità morale dei personaggi, i dialoghi barocchi dalle oscenità elaborate e dallo humour devastante, le scene violente spesso suggerite più che mostrate (sequenza della tortura del poliziotto in ostaggio).


KILL BILL VOLUME 1

Curiosità

Warren Beatty era già stato scritturato per il ruolo di Bill e aveva seguito il progetto di Tarantino durante tutto il lungo periodo di pre-produzione. In seguito al licenziamento dell'attore (per motivi tutt'oggi ancora non perfettamente chiari), Tarantino ignorando le pressioni della Miramax che avrebbe preferito Kevin Constner (che invece venne poi ingaggiato per girare "Terra Di Confine - Open Range") scritturò David Carradine, uno dei suoi tanti idoli di gioventù, veterano del cinema di serie B e protagonista di "Kung Fu", telefilm culto degli anni '70.Tarantino aggiunse in seguito che se Bill fosse stato interpretato da Beatty, il personaggio sarebbe stato più simile a un "cattivo James Bond".

Per i 30 anni di Uma Thurman (22 Agosto 2000), Tarantino le regalò la sceneggiatura di Kill Bill e le offrì il ruolo di protagonista.

KILL BILL VOLUME 2

Per dare al film il tipico aspetto dei film cinesi di arti marziali (“wuxia”) degli anni '70, Tarantino diede al direttore della fotografia, Robert Richardson, una lista lunghissima di film da vedere, inclusi quelli del pioniere del genere, Cheh Chang e degli Shaw Brothers. Tarantino, inoltre, insistette affinché gli schizzi di sangue, venissero realizzati, non in modo digitale ma alla vecchia maniera: preservativi pieni di sangue finto che esplodevano all'impatto.

Kill Bill originariamente non prevedeva nessuna scena in bianco e nero, ma in seguito alle minacce di censura, Tarantino pensò di avvalersi di questo escamotage già utilizzato dalle reti televisive americane negli anni '70 e '80 per rendere meno cruente le scene violente dei film di kung fu.

GRINDHOUSE, A PROVA DI MORTE


Macchina da presa che si muove con i corpi, una pellicola che sgrana e striscia sullo schermo, sprazzi di violenza calati in un contesto che sfiora l'ironico, slanci cinematografici alternati a lunghi ed estenuanti dialoghi, riprese in prospettiva in grande stile tarantiniano, questo e molto altro è Grindhouse. La firma del regista è inconfondibile, alcune scene sono a dir poco geniali, il sangue rosso acceso che schizza è una costante per non prendersi troppo sul serio e la scelta di Russell nel ruolo di Stuntman Mike finalmente rende giustizia ad un attore a volte sottovalutato, un volto ruvido, segnato, ironico, tenero e spietato che lascia un segno decisivo su questo film. Tarantino centra la sua attenzione sui personaggi femminili (in particolar modo sui loro piedi), nella prima parte rendendole vittime del fanatismo e di uno Stuntman Mike lucido e dannato, nella seconda invece facendone delle eroine burbere e gasate a discapito del "povero" Mike. Insomma un film che capovolge in un attimo i ruoli, che gioca con gli attori rivolgendoli allo spettatore (Russell fà l'occhiolino alla macchina da presa), che si concede uno stile anni '70 coraggioso e provocatorio (il polso del grande regista). La colonna sonora da cartoons è azzeccatissima e testimoniano una grande cura da parte del regista, nella scelta dei brani. Un film imperdibile.



CSI

SEPOLTO VIVO




Il 24 febbraio 2005 viene annunciato che Tarantino dirigerà l'episodio finale della quinta stagione della celebre serie televisiva CSI: Scena del crimine, di cui il regista è sempre stato un fan.

A metà delle riprese gli autori si rendono conto di avere troppo materiale da mettere in un solo episodio, quindi per evitare di tagliare scene decidono di farlo in due episodi da 45 minuti l'uno. Sepolto vivo (titolo originale Grave Danger, 5x23), andato in onda negli Stati Uniti il 19 maggio e in Italia il 28 luglio, ottiene un numero record di telespettatori ed eccellenti critiche, sia da parte dei fan della serie che dei critici.

L'episodio gira intorno ad una situazione molto simile ad una apparsa in Kill Bill vol. 2: l'agente Nick Stokes (George Eads) viene catturato e sepolto vivo in una bara di plexiglas mentre una webcam trasmette quello che accade in diretta al quartier generale della CSI - in Kill Bill, la Sposa (Uma Thurman) veniva anch'essa catturata e sepolta viva da Budd (Michael Madsen). Occorre però ricordare che Tarantino si è occupato solo della regia e non della sceneggiatura dell'episodio.

mercoledì 17 novembre 2010

FEDERICO FELLINI


LA STRADA
“Credo che il film l’ho fatto perché mi sono innamorato di quella bambina-vecchina un po’ matta e un po’ santa, di quell’arruffato, buffo, sgraziato e tenerissimo clown che ho chiamato Gelsomina e che ancora oggi riesce a farmi ingobbire di malinconia quando sento il motivo della sua tromba”.
(Federico Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino, 1980, p. 60)



LA DOLCE VITA
CURIOSITA'

“Avevo stabilito che il personaggio di Nadia avrebbe indossato reggiseno e mutandine bianche sotto il vestito scuro. Pensavo che il contrasto sarebbe stato sensazionale e molto sexy, ma Nadia Gray, l’attrice, rifiutò. Mi disse che nessuna donna che sapeva qualcosa di vestiti avrebbe mai pensato di indossare reggiseno e mutandine bianchi sotto un abito scuro. Si sarebbero intravisti. E lei non si sarebbe sentita a suo agio nel togliersi un abito scuro rivelando una biancheria intima bianca. Disse che non poteva farlo. Era una cosa assolutamente contraria al personaggio. Fu così convincente che le credetti. Mi persuase. Accettammo il reggiseno e le mutandine neri”.
(Charlotte Chandler, Io, Federico Fellini, Mondadori, Milano, 1995, pp. 160-161)


René Cortade:
("Arts", 18 mai 1960)
Raramente le possibilità molteplici di cui dispone il cinema (immagini, dialoghi, musica, recitazione degli attori, montaggio, angolo di ripresa, profondità o ampiezza di campo) sono state associate in modo più felice e più completo, utilizzate con maggior forza [...] Ma, al tempo stesso, questa perfezione tecnica, non vuole imporsi, non è quella di un virtuoso [...] Il cinema più puro, più audace è [nella Dolce vita] al servizio di una delle visioni più profonde, più originali del nostro tempo. Le due grandi tendenze della scuola italiana, la tendenza a togliere il cinema dal romanzo di Zavattini e la tendenza a esprimere - con una ricerca tesa sempre più verso la verità - l'al




AMARCORD


Nella Rimini degli anni trenta l'adolescente Titta cresce fra educazione cattolica e retorica fascista. Suo padre, Aurelio, è un capomastro anarchico e antifascista: sulle sue spalle oltre i due figli, la moglie e l'anziano padre, piuttosto arzillo, vive anche il cognato sbruffone e perdigiorno, lo zio "Pataca". Suo fratello Teo è invece chiuso in manicomio. La cittadina è popolata da personaggi singolari, come Volpina la ninfomane, Giudizio il matto, Biscein il fanfarone, l'avvocato dalla retorica facile, il motociclista esibizionista, il cieco che suona la fisarmonica. Titta frequenta il liceo cittadino, dove le interrogazioni si alternano agli scherzi a insegnanti e compagni. La sua vita erotico-sentimentale si divide fra l'inarrivabile Gradisca, i grossi seni della tabaccaia e i balli d'estate al Grand Hotel spiati da dietro le siepi. Con il borgo condivide il trascorrere delle stagioni, con i fuochi per festeggiare l'arrivo della primavera, e gli eventi, il passaggio della Mille Miglia e quello del transatlantico Rex, la visita del gerarca fascista e il nevone. La morte della madre e il matrimonio di Gradisca segnano la fine della sua adolescenza.


I VITELLONI


“I vitelloni non voleva distribuirlo nessuno, andammo in giro a mendicare un noleggio come dei disperati. Mi ricordo certe proiezioni allucinanti. I presenti, alla fine, mi lanciavano occhiate di traverso e stringevano dolenti la mano al produttore Pegoraro in un’atmosfera di alluvione del Polesine. I nomi non me li ricordo e se mi li ricordo è meglio non farli.
Mi ricordo una proiezione alle due del pomeriggio, d’estate, per il presidente di una grossa società. Venne con passo elastico, bruno, abbronzato sotto la lampada al quarzo, con la catenella d’oro al braccio, il tipo del venditore d’automobili, quello che piace alle donne. [...]
Non lo presero. Finì a un’altra distribuzione che non voleva il titolo I vitelloni. Ci consigliavano un altro titolo: Vagabondi! Con il punto esclamativo. Dissi che andava benissimo, però suggerivo di rafforzare l’invettiva con un vocione da orco che sulla colonna sonora tuonasse Vagabondi! Accettarono il titolo soltanto quando Pegoraro gli diede altri due film che loro consideravano sicuramente commerciali. Ma sui primi manifesti e le prime copie non vollero il nome di Alberto Sordi: fa scappare la gente, dicevano, è antipatico, il pubblico non lo sopporta”.
(Federico Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino, 1980, p. 53-54)
Tra i protagonisti il più inafferrabile è Alberto Sordi, che Fellini ha preteso contro tutti. Nel frattempo il comico si è impegnato con Wanda Osiris nella rivista di Garinei e Giovannini Gran baraonda ed è giocoforza, per averlo sottomano, seguire lo spettacolo in varie “piazze” tra le quali Viterbo e Firenze. Nel Teatro Goldoni, chiuso per inagibilità e pieno di topi, viene girato il veglione di carnevale; e un ambiente fiorentino viene utilizzato per il negozio di arredi sacri.
(Tullio Kezich, Fellini, Milano, Camunia, 1987, p. 193)
LO SCEICCO BIANCO

Lino Del Fra:
("Bianco e Nero", a. XVIII, n. 6, giugno 1957)
In Lo sceicco bianco l'originalità dell'espressione trova la sua concretezza in una inquietudine senza sfogo, che si riflette e si manifesta nella cattiveria con cui la macchina da presa si muove, ora per fissare impietosamente, ora per sollecitare in tono di satira, gesti fatti e azioni dei protagonisti piccolo-borghesi alle prese con la realizzazione dei loro sogni provinciali. Una piccola borghesia vista come rinuncia alla autenticità, come desiderio di inseguire con commovente impegno una folla di miti usuali e flaccidi: dalla fanfara dei bersaglieri - simbolo di una retorica patriottarda - al mondo dei fotoromanzi; dalla passeggiata in carrozza per le vie di Roma al suicidio per onore, alla sospirata udienza.


FARFALLE, FARFALLINE, FARFALLONE....